Torrecuso
«Lá, del Taburno a l'ultima pendice,
tra infrante torri, appare un paesetto,
dai Longobardi eretto
sopra un gruppo di sassi ameno ed erto
ed al furor sempre de' venti aperto.
...un paese appare fra le nubi e in velo d'oro,
un borgo su l'altura levato, in vecchio stile,
col suo bruno maniero e 'l roseo campanile:
é Torrecuso ....» A. Mellusi
Le origini di Torrecuso
Una
tradizione leggendaria vuole che l'originario nucleo urbano di Torrecuso,
costituito da un castello-fortezza, sia di fondazione etrusca perché costruito
da un Lucumone della città di Chiusi, profugo, con altri compagni, dalla sua
patria attaccata dai Galli. Secondo questa leggenda, infatti, il detto Lucumone,
dovendo ricercare una nuova sede per se e per i suoi compagni profughi, dopo
aver abbandonato Chiusi, si incamminò verso le zone montuose dell'Appennino Irpino.
Lungo il percorso s'imbattè in questo colle del Taburno che, per le sue
caratteristiche morfologiche ed ambientali, si prestava egregiamente ad ospitare
la nuova colonia. Decise, quindi, di fermarsi su questo colle ed ivi costruì le
prime mura di protezione; indi elevò, nella parte più alta, una torre.
In memoria della patria abbandonata, il Lucumone battezzò il nuovo insediamento
con il nome di Torreclusius (Torre dei Chiusi) e, per richiamare ricordi del suo
popolo, indicò due porte della cinta muraria rispettivamente con il nome della
città di Cere e del fiume Chiana. Questa tradizione si trovava scolpita in una
grande lapide che era infissa nella parete dell'antica torre della fortezza. Il
testo di quella epigrafe sarebbe andato perduto se un sensibile ed attento
cittadino torrecusano non avesse pensato di trascriverlo prima che il grande
masso inciso venisse frantumato, sul finire del secolo XVIII, dai muratori
addetti ai lavori di trasformazione voluti dal marchese Carlo Cito, nuovo
feudatario di Torrecuso.
Il testo di quella epigrafe, secondo la trascrizione conservata, era il
seguente:
Quum fugeret Lucumo Gallos patriaque relicta
cum sociis sedes quaereret ille novas
Hirpinorum in saltu Apennini invia pergit
Atquae hoc in clivio moenia prima struit
Urbis is unde migrarat eius de nomine dicit
Hoc castrum felix aere dives aquis
Posuit et turrim sublimi in vertice collis
Hinc Turreclusius nobile nomen habet
Nunc abjecta L. Turrecusium dicimus una
Portaque de tribus est africus unde venit
Nomine de caere urbis caere hanc advena dixit
Atque Clani hinc illam que prope limpha fluit
Quam posuit Lucumo arcendis tunc hostibus arcem
Samnii Adelgiso nunc renovata duce
A.S. DCCCLXXI ante diem XVII. Kal. Maii
Traduzione:
Un Lucumone, dovendo sfuggire i Galli
e dovendo ricercare con i compagni nuove sedi, dopo aver lasciato la Patria,
si avvia verso la regione montuosa dell'Appennino degli Irpini
e su questo colle costruisce le prime mura di una città
che egli indica con il nome di quella dalla quale é emigrato.
Eresse questo "castrum" felice per l'aria e ricco di acque ed eresse
anche
una torre sulla sommità del colle.
Di qui discende il nobile nome di Torreclusio.
Ora, scomparsa la L, diciamo unanimemente Torrecuso.
Ed esiste una delle tre porte, quella da cui spira Africo,
che il forestiero chiamò Cere dal nome della città di Cere.E (chiamò) di
Chiana l'altra porta
in vicinanza della quale scorre l'acqua. La rocca che allora il Lucumone eresse
per difesa contro i nemici
ora é stata rinnovata dal duca del Sannio Adalgiso nell'anno
di Salvazione 871, il 20 di aprile.
La stessa tradizione leggendaria aveva, altresì, riferimento nel testo di una
pergamena che un tempo era conservata nell'archivio della chiesa della SS.
Annunziata di Torrecuso.
Questo il testo della citata pergamena:
Origo terrae Turris Clusii
"hic furias Senonum fugiens clusianus adulter
cum sociis Lucumo moenia prima struit
turriginum castrum struxit supra acumine collis
nec prope nec longe fluminis unda fluit
ex patria Lucumi docuit longaeva vetustas
sit Turris Clusii nobile nomen ejus
numina tunc primi genitores falsa colebant
nunc cives triadis numen amore colunt.
Traduzione: Origine della terra di Torre Clusio.
Fuggendo con i compagni le ire dei Senoni
l'adultero Lucumone di Chiusi qui costruì le prime mura
ed eresse una rocca turríta sulla sommità del colle.
La corrente del fiume scorre né vicino né lontano.
La lunga antica tradizione ha insegnato che dalla patria del Lucumone
discende il nobile nome di Torre Clusio.
I progenitori allora veneravano le false divinità,
i cittadini ora venerano con amore la divina Trinità
Accanto alla tesi della origine etrusca di Torrecuso, ne esiste altra secondo la
quale questo paese sarebbe sorto sulle rovine dell'antica Cossa, la città
sannitica distrutta dai Romani per aver offerto il suo aiuto ad Annibale.
Storia:
La tesi storica più attendibile è, comunque, quella che pone le origini di
Torrecuso in periodo medioevale e, più precisamente, in epoca longobarda.
Questa tesi trova supporto nella evidente tipicità dell'impianto urbanistico
del centro antico del paese. E' stato, al riguardo, affermato che questo centro
costituisce un mirabile esempio di fortilizio longobardo. Stante la sua funzione
di vedetta e di difesa rispetto alla città di Benevento, capitale del Ducato
prima e del Principato poi, Torrecuso, per tutto il periodo longobardo, dovette
far parte dei territori posti sotto il diretto controllo della Curia del Duca o
del Principe, o affidati alla amministrazione di loro stretti parenti. Nel
periodo normanno, Torrecuso si trova infeudato alla famiglia de Feniculo,
iniziata con un Ugo detto anche di Castelpotone, e proseguita con un Ugone
Infante e con un Tommaso che fu a capo di una potentissima baronia. Dal Catalogo
dei Baroni normanni, infatti, risulta che la baronia di Tommaso de Feniculo era
costituita dai feudi: de Feniculo, de Turrecusa, de Castello Potone, de Pellosa,
de Valle Gaudii e de Tribus Palatiis, nonché dai suffeudi: de Ponte e de
Casalatore.
Con l'ascesa al trono di Enrico VI° e Costanza D'Altavilla, la baronia di
Tommaso de Feniculo viene donata a Santa Sofia di Benevento ma di fatto subisce
uno smembramento e Torrecuso resta sostanzialmente in disponibilità della
Corona. Federico II°, mentre in un primo tempo conferma la donazione fatta dai
suoi genitori a Santa Sofia, successivamente conferisce la baronia stessa a
Riccardo D'Anglona.
La caduta degli Svevi, con la morte di Manfredi sul campo di Roseto e
soprattutto la disfatta di Corradino a Tagliacozzo, determinò l'infeudamento di
Torrecuso alla famiglia dei Frangipane della Tolfa.
Il re Carlo D'Angió, infatti, sottraendosi all'impegno preso precedentemente
con il Papa di assegnare alla cittá pontificia di Benevento i territori
circostanti la città stessa, donò Torrecuso (con Ponte, Fragneto ed Apollosa)
a Giovanni Frangipane, signore di Astura, per ricompensarlo della consegna del
povero Corradino, poi fatto decapitare sulla piazza Mercato di Napoli.
Si tenga presente, peraltro, che nel feudo di Torrecuso è da considerare
costantemente incluso il suo casale di Paupisi, esistente già nel 1262 e che
solo nel 1748 ottenne, con decreto della R. Camera della Sommaria, la solutio
directa functionum fiscalium, cioè la separazione dei carichi fiscali.
Estintasi in successione feudale la famiglia Frangipane, Torrecuso passò nel
dominio dei Della Leonessa che, con Alfonso, coinvolto nella famosa Congiura dei
baroni contro Re Ferdinando D'Aragona (1458 - 1459), perdette tutti i feudi che
vennero devoluti alla Corona. Nel 1461, Torrecuso fu venduto da Re Ferdinando
D'Aragona, unitamente ai feudi di Torrepalazzo e di Finocchio, a Fabrizio Della
Leonessa (altro ramo del casato), marito di Belisandra d'Aquino e figlio di
Enrico, Conte di Montemarano. A Fabrizio subentrarono, per successione,
rispettivamente, Marino (1491), Giulio (1498) e Luigi (1512).Luigi Della
Leonessa non ebbe figli maschi, ma solo tre femmine, la prima delle quali di
nome Giulia. Quest'ultima, mentre la famiglia era in lutto per la morte di esso
Luigi, fu rapita e presa in moglie dallo zio/cugino Colantonio Caracciolo
(figlio di Galeazzo Caracciolo e Camilla Della Leonessa) marchese di Vico. Per
il matrimonio con Giulia Della Leonessa, Colantonio Caracciolo si trovò a
gestire i feudi della moglie e, quindi, anche i feudi di Torrecuso, Finocchio e
Torrepalazzo.
Morta Giulia Della Leonessa nel 1532, Torrecuso passò, una ai feudi di
Finocchio e di Torrepalazzo, al figlio di costei Galeazzo Caracciolo.
Le vicende personali di Galeazzo, conseguenti ad una sua crisi religiosa ed
all'adesione alla dottrina calvinista, misero in pericolo la possibilità di
conservare la titolarità dei feudi stessi, per cui, il vecchio Colantonio si
prodigò in tutti i modi presso l'Imperatore Carlo V° per evitare che
un'eventuale confisca pregiudicasse i nipoti nella successione dei beni.
Ottenne, egli, per grazia, dall'Imperatore di mantenere la concessione dei feudi
predetti che, alla sua morte, avvenuta nel 1562, passarono al nipote pure di
nome Colantonio. Questi, però, assegnò alla madre Vittoria Carafa, creditrice
della dote consegnata all'ex marito Galeazzo, tra l'altro, Torrecuso,
Torrepalazzo e Finocchio. Venuta a morte Vittoria Carafa, nel 1584, Torrecuso,
Torrepalazzo e Finocchio passarono, per successione, al nipote Filippo
Caracciolo. Nel 1586, Filippo Caracciolo di Vico fu espropriato, per debiti, dai
suoi creditori davanti al Tribunale del S. R. Consiglio. I feudi di Torrecuso,
Torrepalazzo e Finocchio furono acquistati da Lelio Caracciolo, Marchese di
Libonati.
In questa occasione la Università di Torrecuso chiese la proclamazione al Regio
Demanio, impegnandosi a pagare il prezzo di acquisto versato dal Marchese. Nel
1599, però, la Università, non potendo saldare il prezzo dovuto, fu costretta
a vendere se stessa, i suoi casali ed i suoi feudi allo stesso Lelio Caracciolo.
Nel 1603, Torrecuso, Torrepalazzo e Finocchio passarono, per successione, a
Carlo Andrea Caracciolo.
I discendenti di Carlo Andrea tennero questi feudi fino al 1764 e cioè fino
alla morte di Luigi Francesco.
A questa data, mancando eredi in feudalibus, Torrecuso, Torrepalazzo e Finocchio
furono devoluti al Demanio Regio fino a quando nel 1779, la Regia Camera non li
vendette a Carlo II Cito, cui successe, nel 1804, il figlio Michele Cito.
Quest'ultimo tenne i feudi per solo due anni fino cioè alla data della entrata
in vigore della legge abolitiva della feudalità.
Le viole d'oro di Torrecuso
Al primo sole di marzo, sui muri e sui tetti delle case di Torrecuso, tra le
siepi e negli anfratti più piccoli e disparati, sboccia il fiore che può
essere considerato l'emblema di questo paese.
E' una viola dai petali di un colore giallo solare, sottili, quasi diafani, dal
profumo lieve e gradevole.
Questo fiore, la cui pianta sembra poter vivere di niente, è più comunemente
chiamato "Viola d'oro" o "Viola di Spagna".
Il secondo nome è legato alla tradizione secondo cui i primi semi di questa
pianta sarebbero stati portati a Torrecuso da un soldato spagnolo che era al
servizio del Marchese Carlo Andrea Caracciolo.
Una variante della tradizione vuole che sia stato lo stesso Marchese a portare i
semi dalla Spagna e a farne omaggio al capoluogo de suo feudo.
Anche Antonio Mellusi, attraverso i versi tratti dai "Ricordi della
Patria", descrive le
Viole gialle di Torrecuso
Allor che aprile ritorna,
destando la fragranza universale,
del mio castel natale
in cima ai muri una corona spunta
che di verde li adorna,
di fiorellin li indora,
e vibra con l'odor si acuta punta
che l'aura intorno e l'anima innamora.
Lá, sopra quelle un dí marzie pareti,
surte al cenno del fiero Adalgiso,
s'aprono mille piante ad un sorriso
di sol che rende i cuori e i campi lieti:
son piante di viole germinate
tra pietra e pietra e in oro colorate.
Chi le piantó? Chi le diffuse, eguali
a l'erbe parietali?...
Da le contrade Ibére
enarra il volgo che quel fior pervenne,
or son due volte cento primavere,
quando guidava le spagnuole antenne
lungo il mar Lusitano ed Olandese
Carlo, di Torrecuso alto Marchese.
Mentr'Ei (decoro e speme
crescendo, come gli avi,
de' Caracciolo al seme)
faceva veleggiar le regie navi
de la vittoria ai venti, in seno a l'ermo
torreclusin maniero
mandar gli piacque un giovan guerriero
che avverso piombo ne la pugna offese,
onde s'invigorissse il fianco infermo
a l'afflusso vital d'aura cortese.
Nato quel prode sotto il raggio mero
del Castigliano ciel, la guancia scura
aveva e scuro il crin, caldo il pensiero.
Un'odorosa pianta
cingea di vigil cura:
gentil memoria e santa
era quel cespo de' natii giardini,
ove la madre, oh quante volte, pose
su l'erba i suoi bambini
a far ghirlande di viole e rose.
Del castello a un veron gelosamente
tenea l'infermo milite
il picciol vaso che reliquia gli era
d'ogni cosa diletto; ed al tepente
bacio di primavera
quando la pianticella
di viole e d'odor si fece bella,
egli baciando i fior, sentir credette
anche una volta la materna stretta.
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